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Immagine del redattoreAndrea Moser

Ma adesso dove sei?


Voi, che vino siete? Ve lo siete mai chiesti? Un vino blasonato, un vino della tradizione, un vino del contadino, un vino esclusivo? Io, oggi, dopo essere stato sedotto dai blasoni e dalla tradizione, mi identico con Flow, un’etichetta che prima non c’era, e non sarà mai uguale a se stessa.



Qui ho riassunto il mio intervento al TEDx: se vuoi rivederlo lo trovi QUI.


Ma adesso dove sei?

Questa è la domanda che tutti mi hanno fatto, appena uscito dalla più grande cantina cooperativa dell’ Alto Adige, il mio ultimo lavoro “vero”. O perlomeno quello che è considerato da molti colleghi un lavoro “vero”. Cioè svegliarsi la mattina, recarsi al luogo di lavoro, uno solo, sempre quello, passarci un tempo che può andare dalle 8 alle 16 ore, tornare a casa e ricominciare il giorno seguente.

Per le persone, è come per il vino. Sono importanti le etichette: sembra sempre che il mondo, la gente, debba darti un posto, debba inquadrarti in una casella riconoscibile, in una zona di comfort. Il tuo lavoro, il luogo del tuo lavoro, il tempo che gli dedichi, gli orari che fai e come lo svolgi ti devono definire, altrimenti diventi una sorta di bug nel sistema, qualcosa si inceppa, ti prendono per matto. Poco importa se tu un’etichetta non la vuoi più e stai creando un tuo percorso fuori dagli schemi. Non va bene, non vai bene!

«Quando tornerai a fare l’enologo?», mi chiedono i miei amici..

«Ma io faccio l’enologo, solo che ora lo faccio per diverse realtà in Italia.»

«Ma non scrivi per un quotidiano di Milano?»

«Si! »

« Allora vedi che non fai l’enologo al momento! Non è il tuo mestiere, lascia stare, torna in una bella azienda, non ti manca?»

«I tuoi amici sono preoccupati! Vorrebbero vederti a dirigere un’azienda importante, come prima!»

E ancora: «Ma non fai il tuo vino? »

«Sì, certo»

«Allora fai il produttore?»

«Sì, anche, ma i miei vini escono dalle collaborazioni che ho con le aziende in cui faccio consulenza.» E avanti di questo passo.


Dopo aver lavorato in Friuli a Vie di Romans, a Margaux, in Alto Adige e in Nuova Zelanda, a Kaltern sono stato il Kellermeister di quella che è diventata in quel periodo la più grande cooperativa vitivinicola altoatesina: uno dei più giovani a raggiungere questa meta, e uno dei pochi “italiani” in un mondo decisamente “altoatesino”.

Una mattina, diretto a una ennesima degustazione, fu richiesto il mio rientro per una riunione in presenza del presidente, arrivato in ufficio, mi fu chiesto il badge e mi fu richiesto di consegnare computer, ufficio e auto in breve tempo. La causa è ininfluente e come è andata quella vicenda rimane un dettaglio in questa storia.

Ma dopo aver lavorato per aziende prestigiose per 20 anni, quando da un giorno all’altro ti ritrovi per motivi “politici” senza lavoro, rimangono solo domande e incertezze.

Sei destabilizzato, e quello che hai in testa è solo confusione e senso di vuoto.


E adesso???

Io sono uno che vive di lavoro, o meglio, come diceva spesso un mio amico: «Io lavoro per vivere, tu vivi per lavorare». Dopo un’esperienza così provante, ho però deciso di rallentare la corsa, quando sei dentro al vortice pensi solo a cavalcarlo e se possibile a salire più in alto, se lo vedi da fuori, o sei costretto a saltar fuori, lo vedi per quello che è! Prendermi il tempo di conoscermi, cosa che forse nella vita non avevo mai fatto.

Uscire dal loop, non sentirsi più con la data di scadenza: puoi fare vino una sola volta all’anno, la vendemmia che impone determinati ritmi, degustazioni, tagli, imbottigliamenti, fiere, ogni anno sempre uguale, sempre con lo stesso schema, come se io non potessi essere diverso e come se il mondo del vino sia sempre rimasto uguale a sé stesso.


Ma facciamo un passo indietro. In realtà il mondo del vino è cambiato moltissimo, soprattutto in Italia, negli ultimi 40-50 anni. Ed è anche in questo caso una questione di etichetta.

Vengo da una famiglia che per quarantasette anni ha gestito in proprietà un locale e spesso discutendo con mio padre escono racconti di consumi mirabolanti di vino e alcolici in genere. Nei primi anni Settanta, infatti, nel nostro piccolo bar di paese si consumavano circa diciassette damigiane di vino a settimana, e tutto al calice! (per chi non lo sapesse, una damigiana conta ben cinquantaquattro litri)

Il consumo era soprattutto rosso e in tutte le “salse”, chi lo beveva “liscio”, chi voleva lo “spritz” (l’antenato dello spritz in realtà, solo acqua minerale e vino rosso), chi ancora preferiva il famoso “misto” (mi viene il mal di pancia solo a pensarci ma era, o è ancora in qualche sperduta valle ancora vergine, il vino rosso tagliato per metà con la “cedrata” o la “spuma”). Comunque, per chi non avesse già fatto i conti, si tratta di circa 900 litri di vino a settimana in un paesino che al tempo contava poco più di quattromila anime: facendo due rapidi calcoli si arriva alla strabiliante cifra di 0,2 litri a testa a settimana includendo tutti nel calcolo, cioè donne, uomini, vecchi e giovani. Non si beveva però soltanto vino, ma anche grappa, brandy, vermouth, ecc... avevano un consumo molto molto importante e, non ultimo, il locale dei miei genitori non era l’unico in paese, ma ce n’erano circa una decina e tutti lavoravano piuttosto bene. Va da sé che moltiplicando per dieci il consumo pro capite relativo al nostro bar, si arriva a due litri di vino a settimana che moltiplicato a sua volta per le settimane in un anno arriva guarda caso al consumo medio pro capite rilevato ai tempi, decade 1965-1975, che si aggirava intorno ai 104 litri di vino all’anno (dati di ricerca Istat e Uiv).

Ora il consumo procapite è di circa 33 litri/anno: aiutateci!


Vi starete chiedendo cosa c’entra tutta questa analisi con me: il passato c’entra sempre e va analizzato per capire il presente. Dalla breve storia che vi ho raccontato, infatti, possiamo estrapolare due indicazioni molto importanti: si beve meno e quello che si beve lo si beve meglio, e il vino è stato associato a uno status, anche qui un’altra etichetta.

Oggi le etichette che contano nel vino sono cambiate. Siamo passati dalle damigiane, ai vini blasonati, a definire oggi il vino secondo nuove etichette. In questo momento in Italia potete comprare vini con diverse categorie, non quelle delle aziende, ma bensì riferite per esempio alla modalità di produzione: convenzionale, biologico, biodinamico, naturale e tutte le sfumature tra una e l ́altra versione.Andiamo più nello specifico: biologico e biodinamico sono due concetti e due sistemi di conduzione agronomica, e non solo, che devono sottostare a una certicazione. Quindi, per denirsi tali, i prodotti devono essere verificati da un ente che tutela i consumatori e che certifica che tutte le procedure previste siano rispettate dal produttore. Queste due “Etichette” si pagano: le aziende per dichiararsi tali devono essere controllate da un ente terzo e pagare i loro controlli. Se rispettano i disciplinari, possono apporre questa dicitura sui loro prodotti. Purtroppo invece, in Italia, il vino “naturale” non è definito e quindi può ospitare al suo interno quasi qualunque cosa, ovviamente deve o dovrebbe rispettare la legislazione inerente la produzione di vino.

Quindi, per il concetto “dimmi cosa bevi e ti dirò chi sei”: i prodotti biologici o biodinamici, o artigiani o naturali sono migliori di quelli convenzionali? E i loro consumatori di conseguenza? Non per forza, non sempre. Sono in genere più rispettosi per l’ambiente, ma le problematiche ambientali non sono estranee a nessuna delle conduzioni agricole di cui abbiamo parlato.. Quello che è praticamente certo, invece, è che se tutto il mondo fosse coltivato in biologico con le attuali necessità e conoscenze non avremmo abbastanza cibo per nutrire tutti gli abitanti del pianeta. Ma se non lo facciamo, o se non troviamo alternative, probabilmente non avremo più un pianeta da sfamare. Queste, sono le nuove etichette del vino e, se ne hai una, devi stare solo in quella. Un’altra volta, bisogna stare nel sistema, stare nella casellina assegnata. Se no non vai bene, non va bene.

Ma abbiamo mai pensato a che cosa c’è di davvero naturale in un vigneto, che è un sistema di allevamento intensivo? Possiamo cercare di riportarlo il più possibile vicino a un organismo naturale, ma se lasciato davvero libero diventerebbe in poco tempo una sorta di giungla, visto che la vite è in sostanza una liana e non darebbe di per sé uva qualitativamente atta a produrre vino o quantomeno non in quantitativi sostenibili dal punto di vista economico.

Per gestire al meglio una vigna senza chimica bisogna avere conoscenze profonde ma anche e soprattutto i luoghi adatti, vocati. E in ultima analisi, se volessimo essere davvero “naturali”, invece di aumentare gli impianti dovremmo lasciare intatte alcune foreste e boscaglie fra i nostri vigneti per aumentarne la biodiversità e assorbire la CO2 che produciamo. Perché forse la verità sta comunque nel mezzo e nel buon senso.

Il vino si può fare con pochi, a volte nulli e ragionati interventi enologici e gli interventi viticoli possono e devono essere ridotti al minimo indispensabile per far prosperare le nostre viti e per massimizzare la produzione in termini qualitativi. Ma spesso se si vuole fare meno, bisogna sapere di più, controllare meglio e conoscersi a fondo. Cerchiamo di cogliere il buono, l’utile e l’interessante da ogni tipo di conduzione, sia essa convenzionale, biologica e/o biodinamica, e cerchiamo di trovare un punto d’incontro per creare un sistema veramente sostenibile di produzione del vino, che sia sano, certo, ma che sia soprattutto buono.


E quindi? Adesso dove sei?

Prendendomi il tempo per conoscermi sono riuscito ad abbattere una parte dei dogmi che mi portavo dietro dagli studi e dall’esperienza e ho trovato un percorso che esce dalle strade battute e che mette insieme il meglio di queste “etichette”, eliminando una parte delle regole di prima e aprendosi al nuovo, ma con buon senso. Basta vini ossessivamente tecnici, che tendono alla perfezione, ma no ai difetti venduti come valori.

Adesso dove sono? Io ho deciso che non voglio stare dentro nessuna categoria, non voglio darmi nessuna etichetta. È un percorso più incerto, sono senza etichetta, senza schema, più libero. Più insicuro? Forse, ma non tornerei indietro, mi conosco meglio, conosco meglio il vino, lo faccio diversamente, ma soprattutto so scegliere senza i condizionamenti di prima, non solo il vino ma anche tutto il resto. Non fatevi etichettare dagli altri ma siate voi la vostra etichetta.

E comunque, se non volete essere etichettati da me, vi lascio con un ultimo consiglio: il bicchiere non si prende dal bevante, come fanno in un sacco di film, soprattutto gli americani, per evitare di avere la mano troppo vicina al naso e per evitare di scaldare il vino. Fatelo per me: anche questa è una questione di bon ton... in fondo, parliamo sempre di etichetta! 

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